Mio zio, si chiamava Angelo ma per tutti era "il Bagatt" in dialetto lombardo "il ciabattino, il calzolaio".
Era un'anima lunga lunga, un naso adunco che un evidente rossore suggeriva pomeriggi trascorsi all'osteria con gli amici,
due occhi innocenti e trasparenti come solo l'acqua di un ruscello di montagna può essere. Per il suo carattere scontroso e solitario la famiglia lo aveva superficialmente catalogato come un "carattere difficile", relegandolo in un angolo delle relazioni familiari.
Lo zio si alzava molto presto: una tazza di caffè con la napoletana, vecchi abiti da lavoro dalle ginocchia e gomiti sformati, scarponi pesantissimi che si era costruito da solo, grembiule blu annodato in vita e poi lavorava nell'orto dietro casa. D'estate quando, mi alzavo un po' più tardi del solito,e scendevo di corsa a salutarlo, lo trovavo intento alla sua ruspante colazione: 1 bicchiere di vino rosso,pane e fontina o salame d'oca saltato in padella.
Al mio cinguettante saluto rispondeva sempre con un grugnito ed un cenno del capo, ma gli occhi ridevano sempre.Dopo aver lasciato il suo lavoro di ciabattino l'orto era diventato la sua passione e noi bambine, anche se ero io che trascinavo mia sorella, ne appofittavamo allegramente: non c'era nulla di più gratificante che estirpare,lavare alla fontanella,mangiare e poi rimettere di nuovo nel terreno la cima verde delle tenere carotine o cogliere di soppiatto i pomodori che lo zio aveva segnato con un cordino colorato e che avrebbero dovuto servire per la nuova semente.
Un’anima solitaria la cui vita seguiva un ritmo immutabile nelle stagioni e negli anni: la mattina l’orto, il riposo dopopranzo, la passeggiata con il cane e l’osteria con gli amici nel pomeriggio, la cena sempre alle 19 e le persiane che si chiudevano sempre dopo il telegiornale di prima serata.
Quando l’artrosi piegò quella schiena orgogliosa,quando le sue lunghe dita si richiusero su se stesse rendendo impossibile qualsiasi lavoro, quando il suo cane lo lasciò solo per colpa di uno stupido boccone avvelenato,quando il dolore per tutto ciò riuscì a sconfiggere il suo carattere battagliero, mi avvicinai a lui. Scoprii così un uomo fragile e bisognoso d’affetto,incominciai a vedere la dolcezza del suo sguardo, imparai a gustare il piacere degli attimi trascorsi insieme. Quando avevo bisogno di un attimo di pausa dagli studi universitari, lo raggiungevo sulla panchina del nostro giardino, stavamo per lo più in silenzio io a sgranocchiare una mela e lui a rigirarsi le mani;raramente mi parlava di politica ed allora riaffiorava il vecchio partigiano con il fazzoletto al collo.
Il sole scaldava le sue vecchie ossa ed io mi beavo di quel legame silenzioso che era nato fra noi e che troppo presto ci è stato tolto.
Un ictus, improvviso,devastante per il suo orgoglio.
Una settimana d’ospedale dove riaffiorava, a tratti,la sua rabbia per l’atteggiamento irriverente degli infermieri,per dover dipendere da altri per qualsiasi cosa.
Ricordo che sospesi qualsiasi studio per stargli accanto, per fargli capire che non era solo, per cercare di colmare la sua paura di morire con l’amore.
Adesso, quando entro dal mio calzolaio e sento il profumo forte ed inebriante della colla, rivedo solo lo zio che mi fece trovare sul mio comodino un paio di ballerine bordeaux fatte da lui per il mio decimo compleanno, lo zio che rideva guardando mia sorella giocare da piccola, lo zio che piangeva come un bambino per la morte di Berlinguer, lo zio che mi stringeva la mano come se volesse attingere da me la forza per rimanere attaccato alla vita.
22 maggio, 2007
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1 commento:
roba da premio Campiello. brava!
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