27 ottobre, 2007
riflessioni di un primo mattino in auto....
Amo il mattino sin dalle prime luci dell'alba.C'è un qualche cosa di vitale, di energico, di positivo che non può non ben predispormi verso il nuovo giorno.Amo le mattine di tardo autunno dove la debole luce dell'alba fatica ad aprirsi un varco nel cielo d'argento fuso, dove l'umidità dei campi avvolge tutto il paesaggio, dove cascate di rosso magenta e giallo oro ravvivano gli alberi ancora nell'ombra della notte, dove un airone cinerino solca placido il cielo preparandosi alla migrazione.Sarebbe bello potersi fermare e commettere una follia: cancellare gli impegni,buttare alle ortiche le chiavi della macchina ...chiudere gli occhi, aspirare il profumo della terra per sentirsi di nuovo in armonia con noi stessi.
26 agosto, 2007
compagne di scuola
tempo di ferie, tempo di pulizie per la mia libreria. Vecchi appunti, articoli, giornali vengono controllari con occhio critico e cestinati miseramente. Proprio durante uno di questi riassetti, familiarmente definiti "alla Attila" (dove passo io non cresce più niente, così dicono i miei familiari),scovo una vecchia busta arancione con alcune vecchie foto delle classi elementari: alcune dei vari carnevali ed una foto ricordo della terza.
Classe terza A femminile, quaranta bambine dai fiocchi rossi e grembiuli neri, codini storti,code di cavallo e cerchietti tra i capelli. Seconda fila accucciate, mi vedo: due occhi troppo timidi ed un abbozzo di sorriso, quanto avrei dato per essere un po' più disinvolta”!!!
Il mio sguardo sale sino alla prima fila, in piedi sulle sedie, seconda da destra la vedo: un pulcino spennacchiato, un sorriso birichino, due occhi vivacissimi…..un vero e proprio Gian Burrasca in gonnella!
Quella foto è l’essenza stessa della mia Betty.
Compagne dalla terza elementare alla maturità, lei proveniente da una distinta scuola religiosa, io da una piccola scuola di montagna, un’amicizia immediata e protratta nel tempo.
Flash improvvisi si accavallano nella mente:
Betty sempre al primo banco sotto la cattedra…..troppo vivace, troppo “copiona”. Betty che telefona disperata “ non riesco a capire come fare quest’accidenti di assonometria, posso venire?”.Betty che arriva in sella al suo vecchio motorino, cappellino e poncho peruviano, tubo da disegno tecnico sulle spalle,guanti di lana senza dita e clark. Betty che allarga il foglio sul tavolo della sala e mi guarda sconsolata. Betty senza mai un filo di trucco, anche quando tutte noi compagne, quasi diciottenni, riuscimmo ad ottenere il permesso per un po’di mascara ed il lucidalabbra. Betty sempre sorridente anche nei momenti di sconforto scolastico. Betty ed io sempre pronte a darci una mano a vicenda.
Inevitabilmente l’università, con le scelte diverse, allontana le persone, ma capitava di incontrarci sul treno delle 6.30 : io x qualche esame di medicina, lei qualche lezione in palestra all’ISEF.
Betty che improvvisamente incomincia a cambiare, non più insegnante di ginnastica, ma di sostegno per bambini disabili, un cambiamento lieve eppure costante.
Per un po’ di tempo ci perdiamo di vista, lei il suo lavoro in montagna, io le prime sostituzioni di medico di base.
Poi, improvvisa, una telefonata: “ciao, mi faccio suora…di clausura”
Non è possibile! Non lei, non la mia esuberante, incontenibile compagna di scuola! “perché??” “perché è quello che desidero”
Un anno senza poterla vedere né scrivere, le lettere vengono tutte controllate dalla madre superiora. Poi la possono vedere solo i parenti, poi anche gli amici…ma io non riesco.
Non riesco a scriverle, non riesco ad andare a trovarla, non riesco a vederla dietro una grata, non riesco a pronunciare né a scrivere il suo nuovo nome.
Arrivano i voti perpetui, vuole che sia presente, vuole avere vicino alcuni dei suoi vecchi compagni: non si può non andare.
La giornata è splendida ed il lago d’Orta è un picolo gioiello, solo posando lo sguardo sul convento dell’isola di San Giulio mi si blocca il respiro.
Entro in chiesa ed è come tornare nel 1500 e risfogliare il libro sulla storia di Suor Maria De Leyla, la monaca di Monza. Il coro delle suore sembra ultraterreno, hanno voci angeliche e molte di loro sono così giovani!
Quando la vedo entrare avvolta nell’abito monacale, la pelle così traparente stento a riconoscerla. Con voce serena e sicura pronuncia i suoi voti, il sacerdote solleva mostrando a tutta la platea l’abito perpetuo. Mi guardo attorno, la gente è felice, prega per loro, è troppo per me: scoppio in lacrime e scappo!.
Esco di corsa da quel luogo dove mi sento soffocare, non voglio sentire i miei ex compagni, prendo il primo battellino e ritorno alla mia auto.Sola al volante, posso sfogarmi liberamente mentre le immagini della mia vecchia Betty si susseguono a ritmo frenetico nella mente.
Lo so che dovrei essere felice per lei, per aver trovato la sua strada, ma non ci riesco. Come può non sentire il sento di soffocamento che da’ la sola idea di rimanere chiusa in un posto per sempre? Come si può rinunciare alla libertà ? come si può accettare di non fare mai più di testa propria?Come si può accettare che qualcun altro cambi anche il tuo nome,segno di annullamento del tuo essere unica, per cui non sei più Betty ma solo e sempre “suor ……”?Penso che non riuscirò mai ad accettarlo, ma so anche che così, con la mia fuga, ho perso l’ultima possibilità di stringerla tra le braccia e dirle che sarà sempre e solo la mia unica, meravigliosa, folle, carissima Betty.
Classe terza A femminile, quaranta bambine dai fiocchi rossi e grembiuli neri, codini storti,code di cavallo e cerchietti tra i capelli. Seconda fila accucciate, mi vedo: due occhi troppo timidi ed un abbozzo di sorriso, quanto avrei dato per essere un po' più disinvolta”!!!
Il mio sguardo sale sino alla prima fila, in piedi sulle sedie, seconda da destra la vedo: un pulcino spennacchiato, un sorriso birichino, due occhi vivacissimi…..un vero e proprio Gian Burrasca in gonnella!
Quella foto è l’essenza stessa della mia Betty.
Compagne dalla terza elementare alla maturità, lei proveniente da una distinta scuola religiosa, io da una piccola scuola di montagna, un’amicizia immediata e protratta nel tempo.
Flash improvvisi si accavallano nella mente:
Betty sempre al primo banco sotto la cattedra…..troppo vivace, troppo “copiona”. Betty che telefona disperata “ non riesco a capire come fare quest’accidenti di assonometria, posso venire?”.Betty che arriva in sella al suo vecchio motorino, cappellino e poncho peruviano, tubo da disegno tecnico sulle spalle,guanti di lana senza dita e clark. Betty che allarga il foglio sul tavolo della sala e mi guarda sconsolata. Betty senza mai un filo di trucco, anche quando tutte noi compagne, quasi diciottenni, riuscimmo ad ottenere il permesso per un po’di mascara ed il lucidalabbra. Betty sempre sorridente anche nei momenti di sconforto scolastico. Betty ed io sempre pronte a darci una mano a vicenda.
Inevitabilmente l’università, con le scelte diverse, allontana le persone, ma capitava di incontrarci sul treno delle 6.30 : io x qualche esame di medicina, lei qualche lezione in palestra all’ISEF.
Betty che improvvisamente incomincia a cambiare, non più insegnante di ginnastica, ma di sostegno per bambini disabili, un cambiamento lieve eppure costante.
Per un po’ di tempo ci perdiamo di vista, lei il suo lavoro in montagna, io le prime sostituzioni di medico di base.
Poi, improvvisa, una telefonata: “ciao, mi faccio suora…di clausura”
Non è possibile! Non lei, non la mia esuberante, incontenibile compagna di scuola! “perché??” “perché è quello che desidero”
Un anno senza poterla vedere né scrivere, le lettere vengono tutte controllate dalla madre superiora. Poi la possono vedere solo i parenti, poi anche gli amici…ma io non riesco.
Non riesco a scriverle, non riesco ad andare a trovarla, non riesco a vederla dietro una grata, non riesco a pronunciare né a scrivere il suo nuovo nome.
Arrivano i voti perpetui, vuole che sia presente, vuole avere vicino alcuni dei suoi vecchi compagni: non si può non andare.
La giornata è splendida ed il lago d’Orta è un picolo gioiello, solo posando lo sguardo sul convento dell’isola di San Giulio mi si blocca il respiro.
Entro in chiesa ed è come tornare nel 1500 e risfogliare il libro sulla storia di Suor Maria De Leyla, la monaca di Monza. Il coro delle suore sembra ultraterreno, hanno voci angeliche e molte di loro sono così giovani!
Quando la vedo entrare avvolta nell’abito monacale, la pelle così traparente stento a riconoscerla. Con voce serena e sicura pronuncia i suoi voti, il sacerdote solleva mostrando a tutta la platea l’abito perpetuo. Mi guardo attorno, la gente è felice, prega per loro, è troppo per me: scoppio in lacrime e scappo!.
Esco di corsa da quel luogo dove mi sento soffocare, non voglio sentire i miei ex compagni, prendo il primo battellino e ritorno alla mia auto.Sola al volante, posso sfogarmi liberamente mentre le immagini della mia vecchia Betty si susseguono a ritmo frenetico nella mente.
Lo so che dovrei essere felice per lei, per aver trovato la sua strada, ma non ci riesco. Come può non sentire il sento di soffocamento che da’ la sola idea di rimanere chiusa in un posto per sempre? Come si può rinunciare alla libertà ? come si può accettare di non fare mai più di testa propria?Come si può accettare che qualcun altro cambi anche il tuo nome,segno di annullamento del tuo essere unica, per cui non sei più Betty ma solo e sempre “suor ……”?Penso che non riuscirò mai ad accettarlo, ma so anche che così, con la mia fuga, ho perso l’ultima possibilità di stringerla tra le braccia e dirle che sarà sempre e solo la mia unica, meravigliosa, folle, carissima Betty.
25 luglio, 2007
Dick
Pomeriggio passato a sistemare documenti, incasellare articoli.Così, presa dalla foga dell'ordine, passo a sistemare il cassetto del mio comodino: due contenitori per lenti monouso,un vecchio paio d'occhiali che solo a guardarli inorridisco all'idea di averli indossati, l'ultimo diario personale...poche pagine, non riesco più a scrivere con la penna..la tastiera ha preso il sopravvento, una scatola decorata con i gigli di Firenze colma di lettere di mia madre, alcune foto a cui sono particolarmente legata.
Una attira la mia attenzione, la prendo in mano, sorrido e torno con il pensiero a quel 1968: io e Dick.
Pelo fulvo,coda bianca, occhi vivaci e curiosi. Mi fu regalato quando compii 2 anni: 2 cuccioli che crebbero insieme. Inseparabili nelle nostre scorribande nei dintorni della nostra casa fuori Sondrio.
Le labbra s'incurvano in un ampio sorriso ricordando il giorno in cui decisi di fare della sua cuccia il nostro rifugio segreto. Condividemmo la merenda, la lettura di un Topolino, qualche carezza al suo pelo liscio e qualche leccata bavosa alla mia faccia. Ci trovammo in disaccordo sul momento di uscire: Dick non aveva nessuna voglia di spostarsi dall'entrata, doveva stare molto comodo con il muso sulle mie ginocchia! Sentivo le voci del nonno, di mia mamma che mi chiamavano, ma la cuccia era sul retro e nessuno mi sentiva.Non so quanto tempo passò prima che il nonno scoprì dov'ero.Dick continuava a rifiutarsi di spostarsi nonostante lo spingessi con tutta la forza delle mie manime ed il nonno lo chiamava dall'esterno.
Non rimase altro che schiodare il tetto della cuccia!
Altri ricordi si accavallano nella mente ad una velocità vorticosa: Dick che mi aspettava tutti i giorni sul piazzale della scuola. Appena mi scorgeva cominciava ad agitare la coda ed insieme correvamo verso casa saltando da un prato all'altro. Dick che scavava gallerie nella neve e quando legato alla slitta di legno mi trascinava sui prati vicini proprio come il cane da slitta di qualche famoso esploratore.Dick che cercava di morsicare la piccola gerla che portavo sulle spalle rischiando di farmi cadere,quando andavo a far vendemmia nella vigna del signor Giovanni. Dick ed io che guardavamo dal finestrino dell'850 grigio topo di papà la nostra casa che si allontana in una splendida giornata di metà agosto. Dick che non si abituava alla nuova casa sul lago con il muretto di cinta, alle macchine che sfrecciavano veloci e che non potevano non spaventarlo.Dick che passava le giornate a guaire anche se tornavo da scuola di corsa per stare con lui. Dick che un bel giorno non c'era più.
Al mio visino stravolto e solcato da lacrime, solo lo zio Bagatt cercò di dare conforto. Con i suoi modi bruschi mi fece capire che Dick era triste nella nuova casa ed era scappato per tornare in montagna " vedrai, lì sarà di nuovo felice".Ciò mi diede la forza di superare la sua perdita e nei momenti di tristezza mi consolavo pensando che, anche se solo, Dick era di nuovo libero. Ci vollero diversi anni prima che qualcuno avesse il coraggio di dirmi che Dick non era mai tornato a Sondrio e che il suo viaggio si era concluso dal veterinario più vicino.
Una attira la mia attenzione, la prendo in mano, sorrido e torno con il pensiero a quel 1968: io e Dick.
Pelo fulvo,coda bianca, occhi vivaci e curiosi. Mi fu regalato quando compii 2 anni: 2 cuccioli che crebbero insieme. Inseparabili nelle nostre scorribande nei dintorni della nostra casa fuori Sondrio.
Le labbra s'incurvano in un ampio sorriso ricordando il giorno in cui decisi di fare della sua cuccia il nostro rifugio segreto. Condividemmo la merenda, la lettura di un Topolino, qualche carezza al suo pelo liscio e qualche leccata bavosa alla mia faccia. Ci trovammo in disaccordo sul momento di uscire: Dick non aveva nessuna voglia di spostarsi dall'entrata, doveva stare molto comodo con il muso sulle mie ginocchia! Sentivo le voci del nonno, di mia mamma che mi chiamavano, ma la cuccia era sul retro e nessuno mi sentiva.Non so quanto tempo passò prima che il nonno scoprì dov'ero.Dick continuava a rifiutarsi di spostarsi nonostante lo spingessi con tutta la forza delle mie manime ed il nonno lo chiamava dall'esterno.
Non rimase altro che schiodare il tetto della cuccia!
Altri ricordi si accavallano nella mente ad una velocità vorticosa: Dick che mi aspettava tutti i giorni sul piazzale della scuola. Appena mi scorgeva cominciava ad agitare la coda ed insieme correvamo verso casa saltando da un prato all'altro. Dick che scavava gallerie nella neve e quando legato alla slitta di legno mi trascinava sui prati vicini proprio come il cane da slitta di qualche famoso esploratore.Dick che cercava di morsicare la piccola gerla che portavo sulle spalle rischiando di farmi cadere,quando andavo a far vendemmia nella vigna del signor Giovanni. Dick ed io che guardavamo dal finestrino dell'850 grigio topo di papà la nostra casa che si allontana in una splendida giornata di metà agosto. Dick che non si abituava alla nuova casa sul lago con il muretto di cinta, alle macchine che sfrecciavano veloci e che non potevano non spaventarlo.Dick che passava le giornate a guaire anche se tornavo da scuola di corsa per stare con lui. Dick che un bel giorno non c'era più.
Al mio visino stravolto e solcato da lacrime, solo lo zio Bagatt cercò di dare conforto. Con i suoi modi bruschi mi fece capire che Dick era triste nella nuova casa ed era scappato per tornare in montagna " vedrai, lì sarà di nuovo felice".Ciò mi diede la forza di superare la sua perdita e nei momenti di tristezza mi consolavo pensando che, anche se solo, Dick era di nuovo libero. Ci vollero diversi anni prima che qualcuno avesse il coraggio di dirmi che Dick non era mai tornato a Sondrio e che il suo viaggio si era concluso dal veterinario più vicino.
15 giugno, 2007
ALBA
periodo strano che mi vede spesso sveglia a notte fonda,così prendo uno dei libri che ho sul comodino ( alterno i gialli ai romanzi d'amore, eh sì...ci vogliono anche quelli quando serve!)e faccio l'alba.Il periodo che va dalle 2.30-3 sino alle 4.30 è il mio preferito. Tutto tace, c'è un silenzio assoluto rasserenante, posso gustarmi la lettura,perdermi completamente nella storia senza nessuna interruzione sino a quando.. improvviso incomincia il primo cinguettio: sono le 4.30.E' un cinguettio vivace,allegro che trasmette voglia di vivere,voglia di cambiare il mondo,voglia di esserci..in questo mondo.Nel frattempo il cielo non è più nero,ma grigio argento, la luce è fredda, ancora nessun'automobile rompe la pace.I cinguettii dei merlotti diventano quasi assordanti....mi fanno pensare alle voci cristalline di una scuola materna...Il cielo assume una sfumatura rosata che filtra dalle righe delle tapparelle, le prime auto rompono la magia di quel momento..sono quasi le 5.00..preferisco spegnere la luce ed ascoltare al buio il risveglio del quartiere.
22 maggio, 2007
mio zio
Mio zio, si chiamava Angelo ma per tutti era "il Bagatt" in dialetto lombardo "il ciabattino, il calzolaio".
Era un'anima lunga lunga, un naso adunco che un evidente rossore suggeriva pomeriggi trascorsi all'osteria con gli amici,
due occhi innocenti e trasparenti come solo l'acqua di un ruscello di montagna può essere. Per il suo carattere scontroso e solitario la famiglia lo aveva superficialmente catalogato come un "carattere difficile", relegandolo in un angolo delle relazioni familiari.
Lo zio si alzava molto presto: una tazza di caffè con la napoletana, vecchi abiti da lavoro dalle ginocchia e gomiti sformati, scarponi pesantissimi che si era costruito da solo, grembiule blu annodato in vita e poi lavorava nell'orto dietro casa. D'estate quando, mi alzavo un po' più tardi del solito,e scendevo di corsa a salutarlo, lo trovavo intento alla sua ruspante colazione: 1 bicchiere di vino rosso,pane e fontina o salame d'oca saltato in padella.
Al mio cinguettante saluto rispondeva sempre con un grugnito ed un cenno del capo, ma gli occhi ridevano sempre.Dopo aver lasciato il suo lavoro di ciabattino l'orto era diventato la sua passione e noi bambine, anche se ero io che trascinavo mia sorella, ne appofittavamo allegramente: non c'era nulla di più gratificante che estirpare,lavare alla fontanella,mangiare e poi rimettere di nuovo nel terreno la cima verde delle tenere carotine o cogliere di soppiatto i pomodori che lo zio aveva segnato con un cordino colorato e che avrebbero dovuto servire per la nuova semente.
Un’anima solitaria la cui vita seguiva un ritmo immutabile nelle stagioni e negli anni: la mattina l’orto, il riposo dopopranzo, la passeggiata con il cane e l’osteria con gli amici nel pomeriggio, la cena sempre alle 19 e le persiane che si chiudevano sempre dopo il telegiornale di prima serata.
Quando l’artrosi piegò quella schiena orgogliosa,quando le sue lunghe dita si richiusero su se stesse rendendo impossibile qualsiasi lavoro, quando il suo cane lo lasciò solo per colpa di uno stupido boccone avvelenato,quando il dolore per tutto ciò riuscì a sconfiggere il suo carattere battagliero, mi avvicinai a lui. Scoprii così un uomo fragile e bisognoso d’affetto,incominciai a vedere la dolcezza del suo sguardo, imparai a gustare il piacere degli attimi trascorsi insieme. Quando avevo bisogno di un attimo di pausa dagli studi universitari, lo raggiungevo sulla panchina del nostro giardino, stavamo per lo più in silenzio io a sgranocchiare una mela e lui a rigirarsi le mani;raramente mi parlava di politica ed allora riaffiorava il vecchio partigiano con il fazzoletto al collo.
Il sole scaldava le sue vecchie ossa ed io mi beavo di quel legame silenzioso che era nato fra noi e che troppo presto ci è stato tolto.
Un ictus, improvviso,devastante per il suo orgoglio.
Una settimana d’ospedale dove riaffiorava, a tratti,la sua rabbia per l’atteggiamento irriverente degli infermieri,per dover dipendere da altri per qualsiasi cosa.
Ricordo che sospesi qualsiasi studio per stargli accanto, per fargli capire che non era solo, per cercare di colmare la sua paura di morire con l’amore.
Adesso, quando entro dal mio calzolaio e sento il profumo forte ed inebriante della colla, rivedo solo lo zio che mi fece trovare sul mio comodino un paio di ballerine bordeaux fatte da lui per il mio decimo compleanno, lo zio che rideva guardando mia sorella giocare da piccola, lo zio che piangeva come un bambino per la morte di Berlinguer, lo zio che mi stringeva la mano come se volesse attingere da me la forza per rimanere attaccato alla vita.
Era un'anima lunga lunga, un naso adunco che un evidente rossore suggeriva pomeriggi trascorsi all'osteria con gli amici,
due occhi innocenti e trasparenti come solo l'acqua di un ruscello di montagna può essere. Per il suo carattere scontroso e solitario la famiglia lo aveva superficialmente catalogato come un "carattere difficile", relegandolo in un angolo delle relazioni familiari.
Lo zio si alzava molto presto: una tazza di caffè con la napoletana, vecchi abiti da lavoro dalle ginocchia e gomiti sformati, scarponi pesantissimi che si era costruito da solo, grembiule blu annodato in vita e poi lavorava nell'orto dietro casa. D'estate quando, mi alzavo un po' più tardi del solito,e scendevo di corsa a salutarlo, lo trovavo intento alla sua ruspante colazione: 1 bicchiere di vino rosso,pane e fontina o salame d'oca saltato in padella.
Al mio cinguettante saluto rispondeva sempre con un grugnito ed un cenno del capo, ma gli occhi ridevano sempre.Dopo aver lasciato il suo lavoro di ciabattino l'orto era diventato la sua passione e noi bambine, anche se ero io che trascinavo mia sorella, ne appofittavamo allegramente: non c'era nulla di più gratificante che estirpare,lavare alla fontanella,mangiare e poi rimettere di nuovo nel terreno la cima verde delle tenere carotine o cogliere di soppiatto i pomodori che lo zio aveva segnato con un cordino colorato e che avrebbero dovuto servire per la nuova semente.
Un’anima solitaria la cui vita seguiva un ritmo immutabile nelle stagioni e negli anni: la mattina l’orto, il riposo dopopranzo, la passeggiata con il cane e l’osteria con gli amici nel pomeriggio, la cena sempre alle 19 e le persiane che si chiudevano sempre dopo il telegiornale di prima serata.
Quando l’artrosi piegò quella schiena orgogliosa,quando le sue lunghe dita si richiusero su se stesse rendendo impossibile qualsiasi lavoro, quando il suo cane lo lasciò solo per colpa di uno stupido boccone avvelenato,quando il dolore per tutto ciò riuscì a sconfiggere il suo carattere battagliero, mi avvicinai a lui. Scoprii così un uomo fragile e bisognoso d’affetto,incominciai a vedere la dolcezza del suo sguardo, imparai a gustare il piacere degli attimi trascorsi insieme. Quando avevo bisogno di un attimo di pausa dagli studi universitari, lo raggiungevo sulla panchina del nostro giardino, stavamo per lo più in silenzio io a sgranocchiare una mela e lui a rigirarsi le mani;raramente mi parlava di politica ed allora riaffiorava il vecchio partigiano con il fazzoletto al collo.
Il sole scaldava le sue vecchie ossa ed io mi beavo di quel legame silenzioso che era nato fra noi e che troppo presto ci è stato tolto.
Un ictus, improvviso,devastante per il suo orgoglio.
Una settimana d’ospedale dove riaffiorava, a tratti,la sua rabbia per l’atteggiamento irriverente degli infermieri,per dover dipendere da altri per qualsiasi cosa.
Ricordo che sospesi qualsiasi studio per stargli accanto, per fargli capire che non era solo, per cercare di colmare la sua paura di morire con l’amore.
Adesso, quando entro dal mio calzolaio e sento il profumo forte ed inebriante della colla, rivedo solo lo zio che mi fece trovare sul mio comodino un paio di ballerine bordeaux fatte da lui per il mio decimo compleanno, lo zio che rideva guardando mia sorella giocare da piccola, lo zio che piangeva come un bambino per la morte di Berlinguer, lo zio che mi stringeva la mano come se volesse attingere da me la forza per rimanere attaccato alla vita.
18 maggio, 2007
Madri e Figlie
Mi domando come mai essendo ormai una donna adulta, non riesca ancora ad avere un rapporto sereno con mia madre; perchè è così difficile, per una figlia, trovare la stessa armonia che regola il rapporto con il proprio padre?
A papà associo un'adorazione infantile smisurata, un rispetto adolescenziale, un affetto e voglia di protezione quando ho notato il progressivo declino della vecchiaia. Lui è stato il mio primo amore, ancora ricordo il calore della sua mano quando prendeva la mia di bimba. Era una mano forte che sembrava dirmi "con me sarai sempre al sicuro"
Pensando a mamma tutto si fa più contorto,più conflittuale; eppure è una delle persone che stimo di più.
Chiudo gli occhi ed un attimo tornare bambina,
rivedermi correre solitaria con una cartella rossa fiammante sulla schiena mentre un odioso cappello di lana bianco con il pompom traballante mi fa assomigliare ad un buffo coniglio.
Saltare da un prato all'altro schivando agilmente gli escrementi delle mucche al pascolo ( chi non ha vissuto in montagna non può immaginare il terribile rischio che si corre atterrando sullo sterco di mucca apparentemente secco ed innoffensivo) per arrivare a casa velocemente dopo la scuola.
A casa c'era lei con il suo sorriso dolce a chiederti "come è andata la scuola", mentre quella pulce di sorella cantilenava "hai preso benino,hai preso benino!!!" solo per farmi un dispetto.
Lei che mi lasciava libera come un uccellino di esplorare i dintorni: il bosco dietro casa, i frutteti degli agricoltori vicini. Libera di andare a raccogliere il biancospino sul sentiero acciottolato che portava alla chiesetta di S.Antonio abate o di sparire tutto il giorno dalla sig.ra Giovanna ad aiutarla a fare il burro con la zangola.
Se penso a quei miei primi otto anni di vita trascorsi in Valtellina li associo alla libertà più assoluta.
Lei, solo poche raccomandazioni :"stai attenta" " non parlare con chi non conosci", ma, forse, erano altri tempi.
In questo periodo lei era l'idolo femminile, la figura con la quale identificarsi.
Lei sempre scattante, occupata in mille faccende, lei che si alzava molto presto per il suo lavoro, era una sarta meravigliosa e richiestissima, capace di copiare un vestito da una rivista di moda senza il cartamodello. Famose le nostre scorribande nei negozi a provare capotti e pantaloni facendo finta di ascoltare le commesse mentre il suo occhio clinico studiava i tagli e le cuciture e poi, con un sorriso stampato sul viso "grazie ci penseremo..."; ci catapultavamo nel negozio di stoffe dove mi faceva scegliere il tessuto che preferivo. Per 2 mattine, non la si poteva toccare, si chiudeva in sala ed era tutto uno stendere carta velina, tracciare linee colorate, appuntare spilli,tagliare modelli di carta. Solo quando aveva tagliato la stoffa ed imbastito si poteva ricominciare a vivere.
Lei pronta a svegliarsi la mattina con me per essere silenziosa presenza durante i miei ripassi mattinieri al liceo.
Lei che ha cercato in tutti i modi di farmi desistere dalla scelta del liceo "fai la maestra,hai il posto fisso, un buon lavoro e tempo per seguire la tua famiglia" e, soprattutto, di medicina; ma che poi, di fronte alla mia cocciutaggine, mi ha sempre sostenuta, incoraggiata a non mollare anche nel momento di una crisi nera quando mancavano solo due esami alla fine della laurea.
Lei severa e rigida sui punti fissi della nostra educazione,regole di vita che adesso sono molte delle mie.
Lei difficile da sopportare, proprio per la sua coerenza educativa, durante gli anni dell’adolescenza quando, molte volte, la vedevo come nemica.
Tempestosi gli scontri fra di noi, corse folli attorno al tavolo della sala e fughe precipitose giù dalle scale per poi smaltire la rabbia in biciclettate lungo il lago.
Rapporto di amore e odio,identificazione e competizione.
Ed adesso che sono adulta che ho capito che lei sarà sempre uno dei miei punti di riferimento, vorrei tanto che mi accettasse completamente per quella che sono anche se non sono esattamente come avrebbe voluto che fossi, anche se il mio modo di intendere e vedere la vita non è la fotocopia del suo.
A papà associo un'adorazione infantile smisurata, un rispetto adolescenziale, un affetto e voglia di protezione quando ho notato il progressivo declino della vecchiaia. Lui è stato il mio primo amore, ancora ricordo il calore della sua mano quando prendeva la mia di bimba. Era una mano forte che sembrava dirmi "con me sarai sempre al sicuro"
Pensando a mamma tutto si fa più contorto,più conflittuale; eppure è una delle persone che stimo di più.
Chiudo gli occhi ed un attimo tornare bambina,
rivedermi correre solitaria con una cartella rossa fiammante sulla schiena mentre un odioso cappello di lana bianco con il pompom traballante mi fa assomigliare ad un buffo coniglio.
Saltare da un prato all'altro schivando agilmente gli escrementi delle mucche al pascolo ( chi non ha vissuto in montagna non può immaginare il terribile rischio che si corre atterrando sullo sterco di mucca apparentemente secco ed innoffensivo) per arrivare a casa velocemente dopo la scuola.
A casa c'era lei con il suo sorriso dolce a chiederti "come è andata la scuola", mentre quella pulce di sorella cantilenava "hai preso benino,hai preso benino!!!" solo per farmi un dispetto.
Lei che mi lasciava libera come un uccellino di esplorare i dintorni: il bosco dietro casa, i frutteti degli agricoltori vicini. Libera di andare a raccogliere il biancospino sul sentiero acciottolato che portava alla chiesetta di S.Antonio abate o di sparire tutto il giorno dalla sig.ra Giovanna ad aiutarla a fare il burro con la zangola.
Se penso a quei miei primi otto anni di vita trascorsi in Valtellina li associo alla libertà più assoluta.
Lei, solo poche raccomandazioni :"stai attenta" " non parlare con chi non conosci", ma, forse, erano altri tempi.
In questo periodo lei era l'idolo femminile, la figura con la quale identificarsi.
Lei sempre scattante, occupata in mille faccende, lei che si alzava molto presto per il suo lavoro, era una sarta meravigliosa e richiestissima, capace di copiare un vestito da una rivista di moda senza il cartamodello. Famose le nostre scorribande nei negozi a provare capotti e pantaloni facendo finta di ascoltare le commesse mentre il suo occhio clinico studiava i tagli e le cuciture e poi, con un sorriso stampato sul viso "grazie ci penseremo..."; ci catapultavamo nel negozio di stoffe dove mi faceva scegliere il tessuto che preferivo. Per 2 mattine, non la si poteva toccare, si chiudeva in sala ed era tutto uno stendere carta velina, tracciare linee colorate, appuntare spilli,tagliare modelli di carta. Solo quando aveva tagliato la stoffa ed imbastito si poteva ricominciare a vivere.
Lei pronta a svegliarsi la mattina con me per essere silenziosa presenza durante i miei ripassi mattinieri al liceo.
Lei che ha cercato in tutti i modi di farmi desistere dalla scelta del liceo "fai la maestra,hai il posto fisso, un buon lavoro e tempo per seguire la tua famiglia" e, soprattutto, di medicina; ma che poi, di fronte alla mia cocciutaggine, mi ha sempre sostenuta, incoraggiata a non mollare anche nel momento di una crisi nera quando mancavano solo due esami alla fine della laurea.
Lei severa e rigida sui punti fissi della nostra educazione,regole di vita che adesso sono molte delle mie.
Lei difficile da sopportare, proprio per la sua coerenza educativa, durante gli anni dell’adolescenza quando, molte volte, la vedevo come nemica.
Tempestosi gli scontri fra di noi, corse folli attorno al tavolo della sala e fughe precipitose giù dalle scale per poi smaltire la rabbia in biciclettate lungo il lago.
Rapporto di amore e odio,identificazione e competizione.
Ed adesso che sono adulta che ho capito che lei sarà sempre uno dei miei punti di riferimento, vorrei tanto che mi accettasse completamente per quella che sono anche se non sono esattamente come avrebbe voluto che fossi, anche se il mio modo di intendere e vedere la vita non è la fotocopia del suo.
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